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I partner del consorzio Media Freedom Rapid Response (MFRR) si appellano alla Corte Costituzionale Italiana perché consideri incostituzionale la pena del carcere nelle condanne per diffamazione: un primo passo verso una riforma legislativa più ampia che adegui l’Italia agli standard europei.

Martedì 9 giugno 2020 la Corte Costituzionale terrà un’udienza pubblica per decidere sulla legittimità costituzionale delle norme che in Italia prevedono la pena del carcere per giornalisti condannati per diffamazione. La vicenda ha visto l’Avvocatura Generale dello Stato presentare un memorandum alla Corte il 31 marzo 2020, in cui il Governo italiano manifestava l’intenzione di attenersi alle norme vigenti, che prevedono il carcere per giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa.

In una nota amicus curiae depositata, l’ordine dei giornalisti si oppone alla posizione del Governo, così come il sindacato unitario dei giornalisti della Campania, che a suo tempo aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma.

In particolare, la Corte esaminerà la legittimità costituzionale dell’articolo 595 del codice penale e dell’articolo 13 della legge 47/1948. Potrà respingere la questione, lasciando tutto com’è; accoglierla, abolendo così la pena del carcere, o rinviare la questione alle Camere.

Le organizzazioni firmatarie di questo appello chiedono alla Corte di abolire la pena del carcere come passo cruciale verso una riforma delle norme penali sulla diffamazione in Italia, e verso una revisione delle norme civili in modo da proteggere i giornalisti dalle querele temerarie, definite a livello internazionale come SLAPPs (Strategic Lawsuits Against Public Participation).

L’udienza di martedì 9 giugno rappresenta una svolta fondamentale in un dibattito durato decenni, durante il quale decine e decine di giornalisti sono stati condannati a pene carcerarie per aver svolto il loro lavoro. Le leggi che definiscono la diffamazione un reato, specialmente quelle che per quest’ultimo prevedono pene detentive, violano gli standard internazionali sui diritti umani e gettano un’ombra sul libero esercizio del giornalismo, portando anche a fenomeni di autocensura.

Al momento, i giornalisti in Italia vanno incontro a pene fino a tre anni di galera se condannati per diffamazione in base all’articolo 595 del codice penale, con pene aumentate se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una autorità costituita in collegio. La diffamazione a mezzo stampa è considerata un reato anche dalla legge sulla stampa del 1948, che prevede pene fino a sei anni di reclusione.

Queste norme non sono assolutamente in linea con i principi internazionali sulla libertà di espressione. Nel luglio 2011, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che gli stati “dovrebbero prendere in considerazione la depenalizzazione della diffamazione…. e il carcere non è mai una pena appropriata”. Il Relatore speciale sulla promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione ed espressione per le Nazioni Unite, l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e l’OAS (Organizzazione degli Stati Americani) hanno dichiarato nel 2002 che “la diffamazione come reato non è una limitazione giustificabile della libertà di espressione; tutte le leggi penali sulla diffamazione dovrebbero essere abolite e sostituite, ove necessario, con norme che prevedano illeciti civili”.

Nel 2007, l’assemblea del Consiglio d’Europa ha lanciato un appello agli stati “che ancora hanno leggi che prevedono pene detentive, anche se non vengono in concreto applicate, affinché le aboliscano subito senza esitazione”.

Nonostante questi principi, le sanzioni penali, compreso il carcere, continuano ad essere applicate a danno dei giornalisti in Italia. Numerosi casi sono stati documentati e condannati in anni recenti da parte di organizzazioni internazionali per la libertà di stampa, nonostante in Italia si tratti di un fenomeno difficile da quantificare con precisione, vista la mancanza di dati statistici sufficientemente precisi. In ogni caso, studi comparati confermano che l’Italia ricorre a pene carcerarie per diffamazione più frequentemente di vari altri Paesi europei; in numerosi Stati Membri dell’UE dove pure la diffamazione è un reato, le condanne ai danni dei giornalisti e specialmente la condanna al carcere sono invece rare.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per aver violato il diritto alla libera espressione dei giornalisti condannandoli a pene detentive (Ricca, Belpietro, Sallusti). La Corte ha stabilito che “una sanzione del genere, per sua stessa natura, avrà inevitabilmente un effetto paralizzante”, a prescindere dal fatto che la pena venga effettivamente applicata o no. La Corte ha anche definito le attuali proposte di riforma legislativa che limiterebbero le condanne per diffamazione e toglierebbero la pena del carcere un “passo positivo degno di nota”.

Dove l’Italia mostra delle lacune, numerosi altri paesi in Europa hanno invece intrapreso delle azioni concrete per eliminare o limitare il ricorso al reato di diffamazione. Norvegia, Romania, Irlanda, Regno Unito, Cipro, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia hanno eliminato il reato di diffamazione, mentre paesi come Francia e Croazia hanno abrogato la pena del carcere.

L’eliminazione del reato di diffamazione non impedisce ai cittadini di difendere la propria reputazione davanti a un giudice. Considerare la diffamazione un illecito civile e utilizzare leggi proporzionate ed equilibrate per regolarlo consente, da un lato, al cittadino di avanzare legittime richieste di tutela del proprio buon nome e, dall’altro, di garantire il diritto di cronaca su questioni di pubblico interesse, senza la spada di Damocle di una eventuale condanna al carcere che penda sulla testa del giornalista.

Purtroppo, le norme civili sulla diffamazione in Italia necessitano anch’esse di una seria riforma. Esistono poche garanzie che tutelino contro l’abuso di querele e non ci sono mezzi per bloccare le cosiddette querele temerarie (definite SLAPPs a livello internazionale). Ne segue che la probabilità di autocensura rimane piuttosto alta.

Per tutelare al meglio la libertà di stampa, l’Italia ha bisogno di una riforma complessiva sulla diffamazione che comprenda la totale cancellazione del reato di diffamazione e una riforma generale delle relative norme civili, in modo da proteggere i giornalisti dalle querele temerarie.

L’udienza del 9 giugno potrebbe rappresentare un primo cruciale passo in avanti. La Corte Costituzionale ha l’opportunità di eliminare finalmente le pene carcerarie e di rafforzare la funzione di controllo del potere svolta dal giornalismo e necessaria per la democrazia. Un’occasione da non perdere.

Casi di diffamazione o cause civili che abbiano il carattere della temerarietà e pretestuosità possono essere segnalati alla piattaforma di monitoraggio mappingmediafreedom.org. Il  Media Freedom Rapid Response (MFRR) fornisce anche sostegno legale a giornalisti, operatori dell’informazione ed emittenti. Per altre info su assistenza legale, si può consultare il sito https://www.mfrr.eu/support/legal-support o scrivere a Flutura Kusari [email protected]

 

Sottoscritto da:

ARTICLE 19

European Centre for Press and Media Freedom (ECPMF)

European Federation of Journalists (EFJ)

Free Press Unlimited (FPU)

Institute for Applied Informatics

International Press Institute (IPI)

Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT)

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Questa dichiarazione è stata redatta nell’ambito del Media Freedom Rapid Response (MFRR), un meccanismo di risposta a livello europeo che monitora e reagisce a violazioni della libertà di stampa e dei media negli Stati Membri dell’UE e Paesi Candidati. Questo progetto fornisce sostegno pratico e legale, organizza campagne di mobilitazione e di informazione per proteggere i giornalisti e gli operatori dei media. Il MFRR è organizzato da un consorzio guidato dal Centro Europeo per la Libertà di Stampa e dei Media (ECPMF) che comprende ARTICLE 19, la Federazione europea dei giornalisti (EFJ), Free Press Unlimited (FPU), l’Istituto per informatica applicata dell’Università di Lipsia (InfAI), l’International Press Institute (IPI) e CCI/Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT). Il progetto è cofinanziato dalla Commissione Europea.